25 gennaio 2016

Un ricordo di Giuseppe Busso, a 10 anni dalla scomparsa

È stato padre delle vetture e promotore delle soluzioni meccaniche che hanno contraddistinto l’Alfa Romeo negli anni d’oro del dopoguerra, contribuendo in maniera determinante a creare e consolidare il mito del Biscione su strada e su pista. Ricordiamo Giuseppe Busso, geniale progettista, a dieci anni dalla sua scomparsa.



“V6 Busso”: due parole che nel gergo automobilistico suonano come una sola, inscindibili. Un tributo forse inconsapevole ma sicuramente dovuto all’uomo che progettò quel sei cilindri a V, 60 gradi tra le bancate, costruzione interamente in lega leggera, una delle ultime eccellenze “Made in Arese” che nel corso delle sue evoluzioni, sempre più spinte e sofisticate, è arrivato a occupare i cofani dei modelli più pregiati e sportivi del Biscione sino agli anni Duemila.

Un omaggio legittimo e meritato ma che non rende sufficiente giustizia al personaggio.
Giuseppe Busso, nato a Torino il 27 aprile del 1913, perito industriale (completò gli studi su dispense e appunti con cui Orazio Satta Puliga lo “sommerse” letteralmente, ma senza conseguire mai il titolo di ingegnere), è infatti il padre di tutte le Alfa Romeo “classiche” del dopoguerra, dalla 1900 (la prima vettura della Casa milanese a scocca portante e concepita per la produzione in serie) all’Alfetta (l’ultima meccanica eccellente di Arese) e l’Alfa 6, passando per la Matta, la Giulietta, la Giulia, la Montreal, oltre a derivate e prototipi. Quelle, insomma, che hanno creato e alimentato il Mito. È suo il quattro cilindri con basamento in ghisa della 1900, è suo il bialbero integralmente in lega leggera che per quarant’anni ha equipaggiato le Alfa “Nord”, dalla Giulietta degli anni Cinquanta alle 75 e le Spider dei primi Novanta e che negli Ottanta ha fatto da base per lo sviluppo della versione Twin Spark a otto valvole; sono suoi i sei cilindri in linea delle 2600 ma anche il V8 delle 33 “Sport” degli anni Sessanta e della Montreal, e naturalmente il V6 a dodici valvole che debuttò con l’Alfa 6.

TRAZIONE ANTERIORE, UN CHIODO FISSO
Unica eccezione: l’Alfasud. Uno dei rammarichi più grandi di Busso (l’altro fu la creazione dell’Autodelta), che da sempre si batté in favore della trazione anteriore senza riuscire però a trovare il consenso delle dirigenze. Dopo un tentativo fatto a Maranello, e che sottopose personalmente all’attenzione di Enzo Ferrari, ci riprovò al Portello durante l’impostazione di quella che sarebbe poi diventata la 1900, con la complicità dell’ingegner Orazio Satta Puliga, direttore responsabile della progettazione e sperimentazione, figura fondamentale nella storia del Biscione nonché suo sincero sostenitore. Tentò ancora nel 1952, in parallelo allo studio della monoposto 160 a trazione integrale, con una piccola vettura spinta da un bicilindrico di 750 cc; ironia della sorte sarebbe stato proprio Rudolph Hruska, il futuro padre dell’Alfasud, a bloccare il progetto (“750” sarebbe diventato poi il Tipo vettura della Giulietta). L’idea di una microvettura a trazione anteriore venne rilanciata nel 1954: battezzata inizialmente “Pidocchio”, sarebbe diventata la Tipo 103, 4 cilindri bialbero di 900 cm³, un prototipo realizzato e collaudato senza seguito nel 1962 (l’esemplare è oggi conservato nella collezione non esposta del Museo Storico Alfa Romeo di Arese). Dopo che il progetto Alfasud venne affidato a un nuovo ufficio tecnico guidato dall’ingegnere austriaco Rudolph Hruska, il chiodo fisso di Busso, sempre coadiuvato da Satta, tornò a riproporsi dopo il debutto dell’Alfetta, con l’impostazione di una vettura intermedia denominata “152”: quattro cilindri trasversale con distribuzione monoalbero, sospensioni anteriori dell’Alfetta e posteriori dell’Alfasud. Scomparso Satta prematuramente nel 1974, l’anno successivo Busso riuscì a portare il nuovo motore al banco (1623 cm³ e 108 cavalli) ma ancora una volta non riuscì a ottenere il consenso per lo sviluppo e la messa in produzione.

UN TECNICO “AMBIZIOSO E TESTARDO”
Abile pilota di aeroplani, chi lo ha conosciuto descrive Giuseppe Busso come un uomo dalla volontà ferrea, determinato e severo ma al tempo stesso un grande motivatore, costantemente stimolato a sua volta dalla sfida verso l’innovazione e il raggiungimento dell’eccellenza. “Un tecnico ambizioso e testardo” si definì lui stesso. Dopo il servizio militare fu assunto dalla Fiat ma già nel 1939 venne chiamato dall’Alfa Romeo dove si occupò di vetture da competizione, motori aeronautici e – durante la guerra – di studi speciali sotto la guida dell’ingegnere Wifredo Ricart. Nel 1946 arrivò il contatto con Maranello e Gioacchino Colombo gli offrì il posto di direttore dell’ufficio tecnico di quella che a breve sarebbe diventata la Ferrari, incarico che mantenne per due anni. Nel 1948, sollecitato da Orazio Satta Puliga, Busso tornò in Alfa Romeo diventando responsabile della progettazione meccanica di tutte le vetture. Concluse la carriera nel 1977, anno del suo pensionamento.

Giuseppe Busso è scomparso il 3 gennaio del 2006. Destino volle tre giorni appena dopo che nello storico stabilimento di Arese – era il 31 dicembre 2005 – venisse assemblato l’ultimo “suo” V6.

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